Intervista e confronto con l'autore de "La negazione radicale", Michele Fabiani (Edizioni Monte Bove, 2020).
«Il positivo è negato dal negativo, e inversamente il
negativo dal positivo; che cosa dunque è comune a tutt’e due e li
domina? Il fatto di negare, di distruggere, di assorbire
appassionatamente il positivo, anche quando questo cerca scaltramente di
nascondersi sotto i tratti del negativo. Il negativo non trova la sua
giustificazione se non essendo la negazione radicale».
— M. Bakunin
Gli «anni dieci» di questo secolo sono stati
caratterizzati da una duplice rivolta del pensiero contro quello che per
decenni è stato il vicolo cieco dello scontro tra scientismo ed
esistenzialismo: da una parte, il dominio incontrastato della scienza,
dall’altra la separazione ontologica, incolmabile tra l’esistente e un
individuo alienato e destinato perennemente alla sconfitta. Una trappola
quanto mai attuale in questi giorni. Questa riscossa della filosofia
contro il pensiero debole ha avuto la forma inaspettata di un «ritorno a
Hegel». Una risposta che non ci può bastare e che se resta tale rischia
di farci piombare nella distopia di uno Stato forte o della sintesi
liberale delle differenze.
Il presente libro ci propone allora di inaugurare gli
«anni venti» appena iniziati in maniera tanto turbolenta dalla lettura
che Bakunin fa di Hegel. Una dialettica disarmonica, dove la negazione è
il vero motore della storia, la vera forza del cambiamento radicale.
Uno scontro senza sintesi, senza conciliazione, dove la negazione nega
ma non può essere negata.
Partendo dall’intuizione bakuniana della negazione
radicale, le pagine che seguono ci propongono una originale filosofia
della rottura, una filosofia che rivendica uno sfacciato riduzionismo di
classe, il rigetto del pluralismo delle identità che viene tacciato di
portare solo al contratto sociale. Una filosofia dove è una parte (gli
oppressi) che risolve il tutto. Dove ciò-che-resta di tante
sovrastrutture e determinazioni è la presenza pulsante di una materia
viva.